L’Eco di Bergamo / di Simone Casiraghi
I costi rischiano di far saltare tutto
I costi, oggi primo capitolo della transizione energetica. «La sostenibilità come pilastro di un nuovo paradigma d’impresa e di un diverso modello di sviluppo è un elemento decisivo. Passare da un’economia verticale a una economia circolare è doveroso.
È un obiettivo imprescindibile. E che la transizione energetica per le piccole e medie imprese sia anche un’opportunità di crescita è un’altra certezza. Le imprese italiane sono già pronte e preparate per questo profondo cambiamento. La capacità di non sprecare e di recuperare gli scarti ce l’hanno da decenni nel loro dna di impresa. Ma per mettere tutto questo a sistema, in modo efficiente e senza rischi, occorre un percorso fatto di tappe progressive e di un equilibrio temporale che tenga conto degli sforzi. Soprattutto, della dimensione di investimenti necessari e dei costi richiesti dalla transizione. Che per un’impresa riguardano il fronte tecnologico, organizzativo e finanziario».
Lascia alla fine del confronto questa considerazione. La riflessione di Olivo Foglieni, vice presidente di Confindustria Bergamo, con delega all’Ambiente, Sicurezza e Infrastrutture, rispecchia e rilancia la preoccupazione che l’intero sistema industriale italiano sta discutendo dopo aver preso consapevolezza delle scadenze da rispettare per avviare e completare il passaggio energetico. E dopo aver quantificato i costi. Foglieni è a capo del Gruppo Fecs, 350 milioni di fatturato, 400 dipendenti e 7 stabilimenti con attività di import e export in 100 Paesi, leader in Italia e in Europa nella raffinazione di metalli ferrosi e non ferrosi. La sua prima emergenza sono i costi energetici, denuncia Foglieni, «con prezzi sul mercato che stanno crescendo a ritmi del 300-400%».
Preoccupazione destinata a durare visto il fallimento di fatto del Consiglio straordinario dei ministri europei dell’Energia di due giorni fa. Dal vertice che doveva mettere le basi se non per una riforma (questo era il forte auspicio), quanto meno studiare le prime misure e interventi in grado di contenere i picchi sui prezzi di questi mesi, ha di fatto una portato solo a un’intesa per una vigilanza rafforzata contro possibili speculazioni. Accordo positivo, ma le imprese europee si aspettavano di più in termini di risposta coordinata a livello comunitario contro l’impennata dei costi energetici, che pesa non solo sulle famiglie, ma soprattutto in questa fase di impostazione di transizione sulle imprese europee.
Il piano e gli obiettivi scritti nel Green New Deal da mille miliardi (ma c’è chi già sostiene che ne servirebbero almeno tremila miliardi) prevedono di ridurre le emissioni di carbonio del 55% entro il 2030 e di azzerarle entro il 2050. E man mano che si prende confidenza con questo programma, più ci rende anche conto di quanto la transizione energetica sia un’impresa ciclopica.
Avremo il coraggio di andare fino in fondo? I segnali che arrivano, proprio in questi giorni di vigilia della conferenza Cop26 di Glasgow, direbbero proprio di no. A cominciare dal fatto che a Glasgow non ci saranno né la Cina di Xi Jinping, ma nemmeno la Russia di Puntin. E proprio Gutierres, il segretario generale dell’Onu, ha troncato sul nascere ogni illusione: A una settimana dalla Conferenza di Glasgow siamo sulla buona strada per la catastrofe climatica».
L’emergenza di frenare le emissioni industriali
Un evidente segnale di forte preoccupazione di fronte al dissenso sulla strategia che impone limiti rigidi ai paesi ancora legati all’energia fossile, con il Giappone in testa, maggiori inquinatori in termini di emissione di CO2. L’attesa per di più si fa sempre più ricca anche di report allarmanti e di nuovi timori di fallimento. L’ultimo report di Iea, l’Agenzia internazionale per l’energia, indica che dopo il crollo del 2020, a -5,6%, per via della pandemia e il blocco delle attività, le emissioni globali di CO2 legate all’energia rimbalzeranno di un altro 5%.
E un timore, invece, lo racconta lo stesso Foglieni: «È evidente che occorre un forte cambio culturale e di mentalità. Ma non possiamo da un lato affrontare il problema energia con picchi di costi di questa entità e dall’altra consentire a singolo paesi di muoversi liberamente. Oppure, se per le imprese, quelle più legate all’economia fossile, è difficile pensare di accettare questa svolta, questo non può diventare una zavorra per tutti. O che rallenti il percorso avviato. La Cina, un intero sistema industriale rimasto a corto di energia – spiega Foglieni, dopo aver detto di aver cancellato le centrali a carbone, ora ha autorizzato la costruzione di 48 nuove centrali a carbone entro l’anno. Non solo: le centrali in costruzione sono più numerose di quelle in via di dismissione». Stando all’ultimo report dell’Istituto Carbon Atlas, solo Pechino con questo piano sul carbone sta creando una capacità di generazione pari a sei volte quella operativa in tutta la Germania.
Le contraddizioni del percorso: il caso Cina e il carbone
E non è ancora tutto: la Cina ha appena pubblicato il piano che le consente di raggiungere il picco di emissioni entro il 2030. Una evidente contraddizione se si pensa che proprio per quella data altri paesi puntano invece ad abbattere le emissioni di gas sera. «L’emergenza energia, legata a fattori congiunturali di ripartenza globale, impone però oggi di rimediare al problema. È il momento – rilancia Foglieni – di consentire e aprire alla grande opportunità di impianti come i gassificatori o i termovalorizzatori: produrre energia da prodotti di scarto che diversamente finirebbero inutilmente in discarica. Non ci sono più dubbi, è un’opportunità garantita ampiamente dall’alto livello di sicurezza, dagli alti standard di controllo e di una garantita affidabilità tecnologica raggiunta da questi impianti: sono fra i più puliti e con un bassissimo impatto ambientale».
Ma Foglieni va oltre la “semplice” prospettiva di creare energia da nuovi impianti. «La nuova generazione di sistemi – spiega – oltre a essere sicura fa parte delle opportunità di sviluppo per le imprese coinvolte nella transazione ecologica: strutturarsi per rendersi il più possibile autonome per il proprio fabbisogno energetico producendo energia con i proprio scarti e utilizzarla per il fabbisogno della propria attività. Nascerebbero filiere della circolarità importanti: produzione di energia pulita attraverso il recupero degli scarti industriali».
Qui Foglieni rilancia i dettagli sul perché la filiera italiana è la meglio preparata in Europa (e i dati lo stanno sempre più confermando) sui processi di recupero e trasformazione della materia di scarto. «Le grandi industrie, più strutturate, hanno già budget adeguati per questo passaggio e per riqualificare in senso sostenibile i loro processi e prodotti industriali. Ma queste innovazioni molto spesso sono il risultato di collaborazioni con le piccole e medie imprese della loro filiera, sia per la fornitura di materiali o componenti tracciabili e sostenibili. In questo senso le piccole e medie imprese, come quelle della nostra realtà territoriale – diventano anelli importanti della supply chain della sostenibilità perché sono già in grado di trasformare materiali finora considerati di scarto in nuova materia prima seconda. E inserirla in un nuovo processo industriale. Non ho dubbi – sancisce Foglieni -. Le imprese italiane sono già pronte per questo passaggio da molto tempo. Non è un caso se l’Italia ha avviato questa trasformazione e ha saputo sfruttare il potere dell’innovazione green da molto tempo: siamo il primo paese in Europa per economia circolare e per capacità di recupero dei materiali residui. Siamo più avanti per processi e tecnologie di Germania e Francia».
Bruxelles impreparato: un piano colmo di lacune
Il fronte industriale guarda a tutti questi lati del perimetro della transizione con molta attenzione. E, andando a fondo, spunta qualche dubbio anche sulle scadenze di ogni tappa.
«È certo che i tempi sono molto stretti. E il rischio è che le scadenze imposte dall’Europa non vengano rispettate – riprende Foglieni -. Ho la sensazione che ci sia stata non solo poca conoscenza del problema, ma anche tanta incompetenza a Bruxelles nel fissare il timing di questa transizione. In così pochi anni non si può pensare di passare dalla situazione attuale a quella nuova: ci sono sistemi industriali, impianti, processi da trasformare o da sostituire completamente». Il tema e i principi della sostenibilità, di un’economia circolare siano «obiettivi imprescindibili» ribadisce Foglieni. Ma questo non cancella le criticità, soprattutto sui costi da affrontare.
Tutto questo pensiero Foglieni lo metterà al centro, come tema di confronto, durante la tavola rotonda del prossimo 12 novembre, nell’ambito del Festival Bergamo Città Impresa. Il tema «Transizione ecologica e le Pmi» sarà l’occasione anche per capire a che punto siamo. Ad Anna Monticelli, Circular economy di Intesa Sanpaolo Innovation Center chiederanno così di delineare e spiegare i contenuti del nuovo perimetro di questo percorso con un occhio alla sfida che attende le Pmi. Ma Foglieni avrà modo di confrontarsi anche con i più piccoli imprenditori, le imprese artigiane del loro presidente Giacinto Giambellini. «Eliminare il vecchio per passare al nuovo in poco tempo è un passaggio sempre traumatico – sottolinea Foglieni -. Per questo ribadisco che è necessario garantire un equilibrio temporale che tenga conto degli sforzi e investimenti richiesti della transizione. Altrimenti il rischio è che salti tutto. Le imprese sono pronte a questa trasformazione, ma devono anche fare i conti con la propria attività quotidiana».
Una sfida difficile, ma senza imprese o Paesi zavorra
In questo solco si è inserita Kirsten Dunlop, Ceo di Klimate-Kic, l’agenzia europea che finanzia l’innovazione a difesa del clima. «La sfida più difficile sarà la completa ristrutturazione dei sistemi economici. Il mondo non ha mai sperimentato un cambiamento così vasto in così poco tempo. Dobbiamo metterci in quell’ordine di idee, di cambiare alla radice i valori e gli obiettivi su cui si sono sviluppate le nostre economie».
Ma la Dunlop ha precisato poi lo stesso concetto che Foglieni ha espresso guardando a chi magari è troppo in ritardo. La Dunlop lo ha spiegato senza giri di parole: «Per le imprese, quelle più legate all’economia fossile, è davvero difficile pensare di accettare questa svolta. Ma questa difficoltà non può diventare una zavorra per tutti. O che rallenti il percorso avviato». Foglieni ha ricordato che come sempre “a decidere sarà il mercato. Una dinamica che già oggi è in corso: sono le scelte dei consumatori, la qualità dei prodotti, i materiali utilizzati a decidere quale impresa resta sul mercato e quali saranno messe fuor perché non si sono adeguate.
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Imprenditori e governo: un confronto per costruire il futuro
Al via il Festival «Bergamo Città Impresa»
«Bergamo Città Impresa» tornerà dal 12 al 14 novembre con l’obiettivo di immaginare e costruire solide basi per la ripresa in atto. Siamo infatti di fronte a una robusta ripresa gravata tuttavia da incognite di non poco conto: dall’aumento vorticoso delle materie prime e dei trasporti alla ripresa dell’inflazione, al mismatch tra una forte domanda di lavoratori e una scarsità di personale che ormai non riguarda più solo le figure altamente professionalizzate.
Le scelte dell’Europa
Il Festival aiuterà imprenditori, professionisti, ma anche giovani universitari a comprendere come affrontare queste sfide e a cogliere gli scenari futuri. E lo farà portando a Bergamo leader del calibro di Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia, Carlo Bonomi, presidente nazionale di Confindustria per discutere sulle scelte operate dall’Unione europea che impattano e impatteranno sempre più sull’industria italiana. A fare da sfondo a tutto il dibattito sarà con ogni evidenza la gestione dei fondi del Pnnr, e a “raccontare” le scelte del governo Draghi sarà Francesco Giavazzi, il docente di economia politica alla Bocconi che nei fatti svolge il ruolo di super consigliere del Primo ministro. Ma l’economia è fatta soprattutto di chi la produce. E proprio con industriali e artigiani bergamaschi di primissimo livello come Olivo Foglieni e Giacinto Giambellini, con Giovanni Borgesi e Giovanni Fassi e infine con Danilo Matellini e Monica Santini si ragionerà sul valore delle filiere, sui nuovi prodotti che il mercato richiederà a seguito della rivoluzione digitale e sul percorso di trasformazione delle imprese lungo la direttrice della transizione ecologica.
Verso la transizione ecologica
Proprio quest’ultimo tema caratterizzerà gli eventi di chiusura del Festival. Chicco Testa e Renato Mazzoncini saranno infatti protagonisti domenica mattina del confronto sui nodi della transizione ecologica, mentre la chiusura sarà dedicata al futuro di un settore, quello dell’auto, che proprio la sostenibilità sta mettendo in discussione. A confrontarsi su questo, con Alberto Bombassei, sarà infatti la nuova amministratrice delegata del gruppo sino-americano Silk Faw, Katia Bassi, che a Reggio Emilia sta sviluppando un investimento da un miliardo di euro per produrre le super car elettriche. «Bergamo Città Impresa» sarà anche molto altro. A discutere del ruolo dell’informazione durante la pandemia saranno il direttore de L’Eco di Bergamo Alberto Ceresoli ed Enrico Mentana, mentre, oltre al presidente della Camera di Commercio Carlo Mazzoleni, al sindaco Giorgio Gori e al presidente degli industriali Stefano Scaglia, ospiti di assoluto rilievo attesi a Bergamo saranno tra gli altri gli economisti Gregorio De Felice, Marco Mazzucchelli e Veronica De Romanis, e poi Nando Pagnoncelli, Marco Bentivogli e Marco Bonometti.
Processi, quindi, ma anche prodotti e materiali sostenibili. E questo sarà il tema di una seconda tavola rotonda del Festival Bergamo Città Impresa. Sabato 13 novembre, un altro esponente del mondo imprenditoriale bergamasco, l’imprenditrice Monica Santini, amministratore delegato della Santini, azienda all’avanguardia per tecnologia, design e materiali sostenibili nella produzione di abbigliamento sportivo, amatoriale e professionale per il ciclismo, affronterà il tema dei nuovi prodotti industriali nel dopo-pandemia. Insieme a un altro imprenditore orobico, Daniele Matellini, titolare di AgmDesign discuteranno con Daniele Regazzoni, docente di Progettazione industriale dell’Università di Bergamo ed esperto di tecniche di progettazione, di come devono essere non solo pensati, disegnati e progettati i nuovi prodotti, ma quali devono essere in materiali ecologici in modo che il prodotto a fine vita possa essere recuperato e interamente riciclato come materia prima seconda per un secondo processo industriale.
La diretta Ue ecodesign può dare un mano
È il tema al centro della direttiva europea “Ecodesign”: già nel 2009 l’Unione europea aveva emanato una direttiva ecodesign per la progettazione ecocompatibile dei prodotti connessi all’energia. Lanciando anche sul mercato del lavoro una nuova figura professionale, l’eco-designer: acquisendo i principi della direttiva Ue, l’ecodesigner progetta prodotti e servizi che siano sostenibili e innovativi, con obiettivo finale la riduzione dell’impatto ambientale sia per la produzione sia per l’utilizzo e lo smaltimento finale o, meglio ancora, il riciclo e riuso. Alle conoscenze in fatto di design e progettazione si uniscono quindi quelle in ambito ambientale, con grande attenzione alla chimica dei materiali, ai temi del risparmio energetico e dell’economia circolare.
Una competenza nuova in materia di sostenibilità. A cui Foglieni si riaggancia per rilanciare prima un approfondimento delle regole Ue e poi una sollecitazione in tema di direttiva ecodesign e di approccio circolare alla transizione energetica.
La direttiva ecodesign va oltre la semplice progettazione. «Amplia questa visione comprendendo il concetto di parti di ricambio. In questo modo si limita il fine-vita di un prodotto con la possibilità del recupero e la sostituzione anche di una sola parte esausta o danneggiata. Ogni articolo avrà una vita d’uso più lunga. E nello stesso tempo questa modalità di progettazione consentirà di sostituire solo il 20% di un prodotto anziché il 100%».
Il recupero della plastica per nuovi settori industriali
C’è poi il tema della nuova opportunità autorizzata di recuperare la plastica utilizzata per le confezioni alimentari per essere reimpiegata sempre per lo stesso comparto alimentare. «Non più usa e getta. Ma usa e ricicla. Il futuro del manifatturiero è nel riutilizzo dei materiali già usati, nel taglio dei consumi di materie prime vergini, nella riduzione dei rifiuti e nello spreco energetico. La tecnologia consente di allargare questa possibilità anche ad altri materiali in tutta sicurezza. Un’apertura – spiega Foglieni – che però deve includere innovazione politica, come l’impostazione di normative per promuovere materiali verdi e innovazioni tecnologiche integrate. Ci aspettiamo un sostegno da leggi e norme – sottolinea Foglieni – attraverso meccanismi o forme di premialità, in modo da sostenere questo passaggio di recupero industriale dei materiali da reimpiegare per produrre nuovi prodotti. Ribadisco: il nostro sistema industriale pratica da sempre l’economia circolare. E le nostre imprese sono pronte, abbiamo già questa capacità industriale».
In base ai dati Eurostat è materia prima seconda oltre un quinto (21%) del materiale utilizzato dal sistema produttivo italiano. Ben davanti alla Germania (12,7%). «Ma bisogna fare in fretta, cogliere la velocità di questo cambiamento e gli incentivi ancora pochissimi». E poi l’affondo in finale: «Se non riusciremo a valorizzare il passaggio verso la sostenibilità, a trasformare la sfida ambientale in opportunità di business, il conto che pagheremo direttamente, a proposito di costi, – chiude Foglieni – sarà anche in termini di competitività delle nostre imprese. Non vorremmo che al danno, dovessimo subire anche la beffa».
Intanto, e in attesa della Conferenza Cop26, si sono aperti almeno altri due fronti per l’industria e sempre sui costi per le piccole e medie imprese. Il primo lo ha descritto l’ultimo report di Accenture «Reaching Net Zero By 2050». Il secondo invece la stessa Bce, la banca centrale europea, pubblicando un suo stress test climatico fatto su mille aziende, inviato a tutti i governi, la cui conclusione è tutta nelle poche parole del vicepresidente della Bce, Luis de Guindos: «È essenziale effettuare una transizione precoce e graduale, al fine di poter mitigare i costi della transizione verde e l’impatto futuro dei disastri naturali».
Accelerare da una parte, ma a tappe graduali. Il rapporto Accenture mette in evidenza questo trend: per raggiungere il traguardo net-zero entro il 2050, già da qualche anno, chi si è dato l’obiettivo carbon-zero ha ridotto le proprie emissioni in media del 10%. Ma chi non lo ha fatto le ha aumentate.
Ma l’altra novità dello studio sono gli obiettivi decisivi dalle singole aziende: l’anno fissato dalle imprese europee per il net-zero, si attesta in media al 2043, data che per l’Italia scende fino al 2041. Ma c’è chi punta addirittura al 2035, soprattutto le società di servizio. «Darsi un obiettivo, quindi, sembra funzionare – si legge nel report -. E un approccio rilevante è comprendere che l’obiettivo net-zero va gestito come una qualsiasi altra priorità strategica aziendale». Poi però, fra il dire e il fare, c’è anche una parte consiste dello studio che rivela come «solo una su venti (il 5%) è sul percorso giusto per raggiungere l’obiettivo prefissato. E solo il 9% ha buone probabilità di raggiungere il traguardo entro il 2050».
E poi c’è la Bce. Con un rapporto tecnico, ma dal forte valore politico (inviato a tutti i governi europei) esorta ad agire il più rapidamente possibile per avviare la transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio. Un documento importante che certifica, con l’unico stress test climatico oggi realizzato, l’impatto del cambiamento climatico su oltre quattro milioni di imprese in tutto il mondo e 1.600 banche nell’area dell’euro. La Bce non sembra avere dubbi: è essenziale procedere ma con una transizione precoce e graduale, occorre «mitigare i costi della transizione verde». In particolare sono stati individuati due rischi. Il primo è fisico, legato all’aumento della frequenza e dell’entità dei disastri naturali. Gli impianti di produzione situati in aree esposte a rischi naturali, ad esempio in prossimità di fiumi o in riva al mare, e quindi soggetti a inondazioni, potrebbero quindi subire danni significativi. “Questo danno potrebbe interrompere il processo produttivo a breve termine e potenzialmente portare al fallimento dell’azienda a lungo termine” scrive la banca centrale.
Il secondo consiste in un rischio di transizione, quello del costo dell’introduzione di politiche coercitive per ridurre le emissioni di CO2, in particolare per alcune industrie basate sul carbone. Questi (estrazione mineraria, estrazione di combustibili fossili, metallurgia…) dovrebbero sostenere costi considerevoli per ridurre queste emissioni “che aumenterebbero la loro probabilità di fallimento nel breve o medio termine”, sottolinea la Bce.
Ma se il rischio è ben presente, è altrettanto molto ben chiara la direzione da prendere: «I costi a breve termine della transizione sono irrisori rispetto ai costi del cambiamento climatico incontrollato a medio e lungo termine – sostiene -. L’impatto del rischio fisico sulla crescita supera i costi di transizione in tutti gli scenari e lungo l’orizzonte di proiezione. Catastrofi naturali più frequenti e gravi potrebbero portare a un calo del 10% del PIL entro il 2100, se non si interviene sul clima». E conclude rassicurando che «i risultati mostrano che le aziende beneficiano chiaramente dell’adozione anticipata di politiche verdi per sostenere la transizione verso un’economia senza emissioni di carbonio», conclude la banca centrale.
Ma la Bce chiude anche con uno sguardo alle banche, altro soggetto chiamato in causa in questa transizione. Il rapporto spiega molto chiaramente come le istituzioni finanziarie «potrebbero essere gravemente colpite da uno scenario in cui non si tiene conto del cambiamento climatico», spiega. Le perdite previste sui portafogli di prestiti alle imprese aumenterebbero drasticamente nel tempo, a causa di disastri naturali in costante aumento, e «potrebbero diventare critiche nei prossimi trent’anni. Nel 2050, la probabilità di default del portafoglio medio di prestiti alle imprese di una banca dell’area dell’euro è dell’8% maggiore in uno scenario in cui nulla cambia rispetto a quello di una transizione ordinata».
Per quanto riguarda invece i portafogli prestiti delle aziende più esposte al rischio climatico, la Bce spiega che «hanno il 30% in più di probabilità di insolvenza nel 2050 rispetto al 2020 se non si interviene». E conclude con un monito: «Il cambiamento climatico rappresenta una delle principali fonti di rischio sistemico anche per le banche i cui portafogli sono concentrati in determinati settori economici e, soprattutto, in specifiche aree geografiche», molto esposte ai disastri naturali. Il dato finale è dell’Istituto Rousseau e delle Ong Reclaim Finance e Les Amis de la Terre. Secondo questo documento, le undici principali banche dell’area euro accumulano uno stock di oltre 530 miliardi di euro di asset legati ai combustibili fossili – pari al 95% del loro patrimonio complessivo – il cui valore è destinato a diminuire se l’accordo sul clima di Parigi sarà rispettato. Le condizioni ideali per una nuova tempesta perfetta.