Dario Di Vico / Corriere della Sera
Gli addetti ai lavori lo sottolineano sempre con maggior frequenza: all’interno del nuovo triangolo industriale Treviso-Bologna-Milano le performance dell’Emilia sorprendono.
Grazie all’ampia documentazione fornita dalla direzione studi di Intesa Sanpaolo è possibile, infatti, analizzare la reazione dei territori alla Grande Crisi, prima e poi al piccolo ciclo della ripresa 2016-18. Anche di questo si è discusso al Festival Città Impresa chiusosi ieri a Vicenza dopo una tre giorni di riflessioni e confronti.
E allora sia per addetti alla ricerca&sviluppo, per numeri di brevetti registrati, per «lunghezza» delle reti di export, per produttività, dotazione di laureati in materie scientifiche e tecnologiche, governance più aperta, le aziende emiliane battono quelle venete e in molti casi anche quelle lombarde. Ma perché è interessante sottolinearlo? Non certo per campanilismo ma perché in questa «sorpresa» c’è qualcosa di utile per le sfide che il capitalismo di territorio si trova davanti nel 2019. Sappiamo ancora poco degli effetti del piano Industria 4.0, non abbiamo una fotografia apprezzabile del grado di digitalizzazione delle imprese mentre sarebbe necessario recuperarla al più presto. Il 4.0 non si può restringere a un provvedimento di incentivazione, è un processo di crescita culturale reso indispensabile dagli scenari preoccupanti che si sono aperti. Dobbiamo infatti reagire alla crisi di domanda di alcuni mercati e allo stesso tempo conservare quel vantaggio competitivo del made in Italy che rischia di essere eroso in mancanza di investimenti. È in questo quadro che le buone pratiche emiliane — soprattutto della meccanica — sono di stringente attualità.