Il Giornale di Vicenza / di Cinzia Zuccon
Le imprese italiane costituiscono la seconda potenza manifatturiera d’Europa: “il partito del Pil”, le ha definite Dario Di Vico. Il loro ruolo, specie di questi tempi, va però ben oltre il creare profitto.
È un soggetto politico attivo “L’Impresa Riformista” di cui parla nel suo libro Antonio Calabrò, direttore della Fondazione Pirelli e vicepresidente di Assolombarda. Non si tratta certo di creare un “partito delle imprese”, ma di esercitare la “policy” promuovendo proposte concrete: «La battaglia per le infrastrutture, il sostegno alla ricerca scientifica, all’innovazione, al welfare e ad un maggior ruolo dei giovani e delle donne nei processi economici: sono alcune delle battaglie politiche che possono generare lavoro, innovazione, benessere e inclusione – spiega Calabrò -. E l’impresa andrebbe ascoltata e non ostacolata».
Calabrò, tutto si declina nella responsabilità sociale e ambientale che contraddistingue sempre più aziende. Tuttavia, negli anni si è diffuso un clima anti-imprese. Perché?
Le aspettative di benessere del progresso sono state deluse, i cambiamenti costano, anche in termini di disuguaglianze. La crisi e il generale abbassamento del livello culturale hanno fatto il resto. L’economia è stata messa sul banco degli imputati e l’impresa è finita al centro senza distinguere tra banche, aziende, finanza rapace, speculazioni; il consenso giocato sulla paura poi ha alimentato polemiche contro quelli ‘di prima’: politica, imprese, sindacati, associazioni, élite.
Le imprese più grandi investono in welfare per i dipendenti, ma le piccole, la maggioranza, non hanno i mezzi. Non si rischia paradossalmente di aumentare le disuguaglianze?
Quella tra grandi e piccole aziende, tra l’altro, è una contrapposizione che per lei non esiste, ma per la politica sì.La crescita delle grandi comporta benefici anche per la catena dei fornitori, ma questo è un tema complesso che va affrontato lavorando su punti di sintesi, non di ostilità. Servono politiche che tengano insieme piccole e grandi imprese e settori diversi. Si tratta di avere un’idea del Paese e di tenere presente che le politiche del rancore che portano voti alla lunga il Paese lo rovinano. Imprese di diverse dimensioni non hanno la stessa forza, ma le organizzazioni sì e le assemblee territoriali hanno dimostrato di essere cariche di proposte e progetti. Non vengono ascoltate da un Governo ignorante che capisce poco di economia, vive di retorica e propaganda e non comprende la necessità di avviare una politica economica nuova spendendo risorse in infrastrutture, formazione, ricerca, green economy. Non è possibile ridistribuire risorse senza investire su produttività, innovazione e competitività.
Un tema che genera odio e rancore è anche quello dell’immigrazione di cui l’industria ha dimostrato di aver bisogno.
Sì, e non lo si può risolvere con un generico “porte aperte” né con un rabbioso “chiudiamo i porti”, buono per un tweet ma pessimo per le prospettive; le politiche vanno disciplinate tra grandi soggetti. Le generalizzazioni poi non aiutano a distinguere: ci sono matematici che potrebbero arrivare dal bacino del Mediterraneo e di cui avremmo un gran bisogno e aziende del Nordest che grazie anche agli immigrati sono cresciute favorendo benessere e integrazione. La politica dovrebbe tenerne conto.
Tra Milano-Veneto ed Emilia si produce quasi la metà del Pil Italiano. È il nuovo triangolo industriale: può “fare da traino ad progetto di sviluppo europeo che saldi l’Europa continentale al Mediterraneo”, le scrive. Ma come superare i limiti dell’attuale contesto?
Continuando a lavorare, a dimostrare che le idee e i progetti di uomini e donne di impresa aumentano benessere, posti di lavoro, inclusione sociale. Certo le condizioni non agevolano, ma i marinai bravi sono quelli che vanno controvento come stanno facendo le imprese. E se non siamo un Paese socialmente distrutto è proprio grazie a loro.
È necessario un cambiamento anche di Confindustria?
Penso che Confindustria abbia bisogno di riformarsi completamente per essere ancora più vicina alla imprese, deve essere meno ‘Ministero’ e più soggetto attivo; è anche vero però che le Confindustria locali hanno risposto alle esigenze di riforma meglio del centro. Riforma e rinnovamento delle strutture rappresentative delle imprese sono in corso. Molto è stato fatto, ma bisogna continuare ad innovare.
Quattro sono per lei le parole chiave per l’economia: giustizia, libertà, fiducia e gentilezza. In che rapporto stanno gentilezza e cambiamento?
Il cambiamento è la modifica di una condizione, un trauma. E la gentilezza è in grado di attutirlo.